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Archivio Io Suono Italiano ?     archivio dal tango alla musica caraibica

il piffero delle Quattro Province

Stefano pensava che rimanessi a Cegni una mezza giornata, il tempo di un’intervista e qualche registrazione… mi son fermato quindici giorni. Del resto le vallate dipinte di verdi lucenti, l’atmosfera di pace d’altri posti, l’accoglienza degli amici che ho incontrato e la musica unica di queste parti, sfidano anche il più qualunquista a dire di no a una permanenza prolungata.
Siamo a Cegni e dintorni, in provincia di Pavia, in quella zona denominata “Quattro Province” (Genova, Pavia, Alessandria, Piacenza), dove il territorio culturale va di là dalle amministrazioni di appartenenza. In questa zona appenninica si è mantenuta una storia legata da una stessa musica.
La prima occasione per ascoltarla me la offrono Stefano Valla e Daniele Scurati, inseparabili compagni di suono, che si esibiscono per il Cammino della Musica nella grande cucina blu della casa di Stefano. L’impatto è devastante: un blocco sonoro forte, deciso, completo, che perfora l’anima.
Sembrano in dieci e invece sono in due; piffero e fisarmonica, questa la formazione tipica della zona dove, dice Stefano, “non si è mai smesso di suonare”. Stefano è una persona con due grandi spalle, su di una porta la serietà e la professionalità, sull’altra ci sta un’ironia travolgente. La sua testa è capace di dosare sapientemente le due forze. I suoi amici dicono che è un professionista delle feste.
Lui e Daniele sono musici e lo fanno di mestiere, “suonatori” dicono loro.
Noi non siamo e non vogliamo essere la ricostruzione di un recupero isolato dal contesto sociale in cui siamo cresciuti”, dice Stefano: “Noi siamo cresciuti in questa zona, dove abbiamo sentito fin da piccoli il piffero”.
La forza di questi due musicisti e di altri di queste parti, sta nell’esser stati capaci di tradurre i comportamenti ereditati dai vecchi suonatori per i tempi attuali, ma senza sbalzi temporali, bensì in forma ininterrotta e senza rinunciare all’innovazione che rappresenta la continuazione della tradizione.
La tradizione è viva nel momento in cui riesce a mantenersi ed evolversi nello stesso tempo. Bisogna conoscere quello che è stato fatto prima per permettersi di innovare. Tradizione per me è conoscenza.
Una prova di questa tesi è quello che hanno fatto i vecchi suonatori della zona, quando agli inizi del ‘900 hanno deciso di sostituire la cornamusa (vecchia compagna del piffero) con la fisarmonica, “nuova amante del piffero”, adeguando e riformando il repertorio “tradizionale”. Allora, che cosa è tradizione? O meglio, 'quando' è tradizione? Domande tanto assurde quanto inefficaci perché non ha senso fissare paletti spazio-temporali a una forma artistica e culturale in continuo movimento.

 

Stefano mi racconta che ha avuto un grande rapporto artistico e umano con i suoi maestri Ernesto Sala e Andrea Domenichetti, valori che sta trasmettendo anche ai suoi allievi. Dice di essersi reso conto, quando è morto il suo ultimo maestro, di non avere più nessun punto di riferimento e che 'la palla ora è passata a lui'. Ricorda che lo stesso maestro che viveva in un paesino di poche anime a 1100 metri diceva: “Questa musica è locale ed europea insieme”, e ora Stefano e Daniele affermano: “Noi suoniamo come i suonatori di 100 anni fa, ma siamo anche gli stessi che oggi stanno girando l’Europa suonando questa musica”. E la musica che suonano i musicisti delle Quattro Province deve funzionare tanto nel rituale di un matrimonio locale, quanto sul palcoscenico di un teatro europeo. “Suonando in modo qualitativamente meritevole”. La musica delle Quattro Province infatti richiede molto studio e dedizione, soprattutto, consapevolezza.
SECONDA PARTE:

Qui le feste sono una faccenda “seria” ed ho avuto, tra le altre, la fortuna e l’opportunità di partecipare ad un matrimonio. Non è che si usi ancora spesso celebrarlo come un tempo, mi raccontano gli sposi Stefano e Serena, ma a volte capita, e allora i suonatori vanno a prendere la sposa sotto casa e le dedicano una canzone che racconta del distacco dalla famiglia per addentrarsi nel mondo di coppia. Ci sono poi altre musiche dedicate a vari momenti del rituale e si finisce come di consueto al ballo finale, che è aperto a tutta la comunità e non solo agli invitati del matrimonio.

Il palco delle feste è solitamente un tavolo. Spetta all’organizzatore della festa accertarsi che regga il peso dei suonatori. L’articolarsi della festa ha dei codici e delle regole che musici, ballerini e partecipanti in generale conoscono e rispettano da tempo. Ricordo che ad un certo punto del ballo, durante le nozze, qualcuno fece notare a dei suonatori di aver fatto durare troppo a lungo una mazurca e i danzatori avevano così perso il senso del ballo. Stefano mi spiega però che non sempre dove c’è un ballo c’è una festa: per farlo diventare tale ci vuole una certa abilità del suonatore, il suo intuito e soprattutto l’esperienza. È al suonatore quindi che spetta il ruolo di sacerdote dei festeggiamenti, in grado di soddisfare i suoi adepti-danzatori con le giuste orazioni musicali fatte di alessandrine, monferrine, valzer, mazurche e polche. Non è per nulla eccessivo affermare che in queste feste si avverte qualcosa di spirituale. Come si potrebbe altrimenti spiegare una resistenza fisica che permetta ai musici di suonare senza sosta per ore ed ore? Stefano parla di una specie di trance benefica, sana, pura, che dà al tempo che passa un significato del tutto relativo: “A volte suoniamo per dieci ore senza nemmeno accorgercene”.

Durante queste lunghe ore che vorresti non finissero mai, l’intreccio melodico di piffero e fisarmonica crea un suono ipnotico. Sono sicuramente una coppia vincente, seducente, indissociabile, unica nel suo genere e simbolo di una cultura musicale che ha saputo modellarsi ai tempi trovando sapienti soluzioni e geniali innovazioni.

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Ringraziamenti: Stefano Valla e Daniele Scurati, Massimo Perelli, Matteo Burrone, Renata Tommasella,  Roberto Cariotti e Romana, Bernard Blanc e Philippe, Adriano Angiati e gli sposi, Anna, Loredana, Laura, Ettore e Carla, Cleto Marini, Helen, Giorgio Carraro, Maurizio di Romagnese e Urby, Martina catella.

 

Domenica 10 maggio Il Cammino della Musica è arrivato a Castel Raniero, Faenza per la rassegna di Musica nelle Aie. Questo è un omaggio ai musicisti che vi hanno partecipato.

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Dopo una pausa costretta per riparare i malanni del camper, la macchina ha affrontato degnamente il primo viaggio e mi auguro che regga ancora a lungo visto che la tappa finale è ancora distante; la Sicilia.
La ripartenza è stata ben inaugurata con un appuntamento speciale: le signore Mondine di Novi mi hanno invitato al pranzo del primo maggio in una meravigliosa casa nel mezzo della campagna di Novi di Modena (MO). Un’occasione veramente speciale e fortunata (per me) visto che la festa era organizzata per rimpiazzare un concerto saltato. Della serie “non tutti i mali vengono per nuocere”: il Cammino della Musica si è potuto così intrufolare nell’anima di questo gruppo di donne, piuttosto che osservarle soltanto in un'esibizione dal palco per un pubblico.
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Non faccio nemmeno in tempo a parcheggiare il camper che subito il primo piatto di tagliatelle al ragù mi viene servito su di una tavolata abbellita da garofani rossi e da almeno 50 persone, amiche all’istante. Tra una cantata e l’altra me ne sono andato alle undici di notte.
Il coro delle mondine di Novi è composto attualmente da circa 20 donne. Solo poche fra queste sono realmente state delle mondine o mondariso, donne che nel periodo estivo emigravano nelle pianure piemontesi per passare 40 giorni chine sulle gambe, immerse nel fango, a trapiantare il riso. Partivano col treno in più di duecento, provenienti da Modena, Ferrara e altre città emiliane (ma anche di altre regioni d’italia), ammassate in vagoni per bestiame per un’avventura che non avrebbe lasciato il segno solo nel loro fisico, ma anche nel loro percorso di donna di quell’epoca.

L’esperienza della monda, da un lato caricava una mondina di una grossa responsabilità, considerando che la paga che riusciva a racimolare (900 Lire e un chilo di riso al giorno nel ‘47) rappresentava una sussistenza non di poco conto per l’intera famiglia; Silva mi racconta che non potrà mai levarsi dalla mente la sofferenza che ha provato quando un telegramma recante la morte della sua cara nonna, le venne inviato direttamente nella risaia con la raccomandazione di continuare comunque a restare lì, in modo da portare a casa la campagna intera.

Dall’altro la monda permetteva alla mondina, molto giovane, di uscire dal nucleo familiare, in cui per la maggior parte delle volte era limitata o comunque non indipendente. Per molte mondine l’idea di andarsene di casa per un po’ e contribuire alle sorti della famiglia rappresentava una valorosa avventura densa talvolta di sognanti e puerili aspettative. Ma la vita della mondina (come ci spiegherà il video) non era di certo "mondana".

I canti delle mondine trasmettono la passione di donne che hanno vissuto condividendo una sofferenza. Ed è proprio la condivisione che rende le mondine un gruppo forte. Vederle cantare procura una intensa emozione perché si è in grado di percepire qualcosa che va oltre il ricordo di una situazione passata. Le espressioni delle mondine “originali” coincidono infatti con quelle delle mondine “acquisite”, donne che sicuramente non fanno la monda, ma che affrontano tenaci le risaie dei nostri giorni. Così il gruppo si allarga di donne, figlie di mondine, oppure di giovani fanciulle senza alcun legame di “sangue” con il riso. Come Margherita, giovanissima, accolta da pochi mesi nel gruppo, ma già preparatissima nei canti perché ha bisogno di cantare. E Giulia, sapiente direttrice ed energica trascinatrice del coro che ha la missione di comprendere, reinterpretare e trasmettere il significato di questa storia particolare che è la storia di questo gruppo.
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Lidia, che nel ’40 stava nei campi di riso, mi ha mostrato un’agenda dei concerti del coro che potrebbe fare invidia ad una rockstar. Molto spesso donne come lei affrontano viaggi anche molto lunghi per trasmettere a pubblici stranieri vibrazioni emozionanti fatti di passioni condivise e soprattutto attuali.
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Ringraziamenti: LE MONDINE TUTTE, Elena Parasiliti (direttrice Terre di Mezzo), che ha passato un giorno assieme al cammino della musica, Nicola Leonardis (foto n. 1 e 2)

 

Passeggiata fantasma e ironia vivente

ma in tutta questa desolazione c'è grande speranza, alimentata da una sana ironia...

Sono ad Ocre in provincia di L'aquila, ormai da una settimana ed il campo in cui sono ospitato (Cavalletto) è in continua crescita e miglioramento. Sono venuto qui per fare un "video show". Ironia della sorte, questo campo è destinazione della Protezione Civile di Treviso e dintorni. Il dialetto mi sfreccia nelle orecchie come una bella musica ed è subito aria di casa. Così in questi giorni tra un mantaggio e l'altro cerco di dare una mano a questi signori che oltre alla forza ci mettono il cuore. Qui si sta bene, si mangia bene, i pasti sono ottimi ed abbondanti, i bagni sono puliti, c'è l'acqua calda,  i terreni vengono bonificati per mettervi tende rinfrescate da condizionatori, ogni giorno nasce una struttura nuova. La disponibilità di queste persone è sopra ogni immaginazione e i sorrisi sono per tutti anche dopo 12 ore di lavoro. Qualcuno (pochissimi) si lamenta e pretende di più.. ma non dovrebbe la maggior parte ringrazia l'opera necessaria della Protezione Civile. La sera poi si sta insieme, c'è chi va c'è chi viene, si cantano i classici delle mie parti, arriva la chitarra, arriva la grappa e si fa festa. L'opera di coesione musicale non tarda a fare il suo effetto e il popolo della tendopoli si unisce ai canti delle Alpi e accenna quelli degli appennini abruzzesi. Poi si suona e succede di tutto e Vinicio, il vecchio leader del territorio che ha fatto il Vietnam, ne spara una veramente bella. Nella drammaticità di questa battuta c'è una risposta ironica alla sorte infelice, e i volti di queste persone si caricano di energia.. ed è speranza.

      

Sono arrivato ad Ocre come "inviato speciale" di Giorgio de Nardi, uno dei più attivi sostenitori de "Il Cammino della musica". Lui qui era già venuto come promotore del progetto  "ISF Informatici Senza Frontiere" e ha pensato bene che un po' di distrazione non guastava certo agli abitanti della tendopoli. In questi giorni un gruppo di ragazzi pugliesi (Valentina, Chiara, Fabrizio e Roberto) della stessa associazione ISF ha installato dei PC con internet in un container proprio vicino al camper del cammino. Ora è gremito di ragazzi e ogni tanto arriva qualcuno della protezione civile per mandare un  messaggio ad un suo caro.

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Leggi gli articoli usciti a riguardo:  Gazzettino di Treviso - Plein Air - Caravan e Camper

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Festa del cantamaggio a Morro d'Alba

Cari signori vi saluto a tutti... vi canto due stornelli e pure i fatti, di maggio che ci porta i fiori e frutti, noi li raccoglieremo dopo fatti... se passate per le Marche nel mese di maggio, non riuscirete certo a lasciare il paese senza avere in testa questo motivetto. Anche il camper del cammino della musica è stato colpito dall’ironia degli stornelli marchigiani, ed ora continua la sua marcia con una pelle di gatto appoggiata al sedile e incisa con uno stornello ad hoc per il cammino. (vedi "Addio alle Marche con saltarello")
Mi trovo a Morro d’Alba (AN), dove la terza domenica del maggio si celebra una festa che raccoglie usanze e tradizioni molto antiche legate alla stagione primaverile e al rinnovo della vita: si tratta del Cantamaggio, originalmente celebrato tra la notte del 30 aprile e il primo giorno di maggio con squadre di musici chiamati “maggianti”, muniti di organetto, triangolo, tamburello, voci e fantasia che se ne vanno per le case del paese portando allegria agli abitanti, attraverso un canto rituale di questua che augura prosperità nei raccolti e nel lavoro. Simbolo del Cantamaggio è un grande albero che viene piantato a fine festa nella piazza centrale del paese per auspicare la fertilità della terra e della donna.
Interpreti di questo rituale, che affonda le radici in epoche molto remote, è un intero popolo, che ormai da anni ha deciso di riproporre e interpretare in modo attuale questa tradizione che altrimenti avrebbe rischiato di cadere in totale disuso, a causa degli sconvolgimenti economico - sociali degli ultimi tempi.
Oggi il “maggio” non ha nulla a che vedere con la ricostruzione artefatta di un antico ricordo, ma con la sua musica ed il suo ballo, è ancora radicato, e vive nel dna della gente che lo vive; non si tratta nemmeno di un fenomeno legato ad una sola occorrenza annuale: da queste parti si canta e si balla in ogni occasione di festa e condivisione, giovani e vecchi sono uniti insieme da un unico linguaggio.

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Capita quindi passeggiando per i paesetti marchigiani, di assistere a performance canterine che talvolta diventano vere e proprie competizioni; botta e risposta tra abili cantori che ripescando rapidamente i termini più efficaci di un loro vocabolario fantastico, creano divertenti e provocanti stornelli in rima, spesso esplicitamente a sfondo sessuale, al suono di vivaci saltarelli e al passo di instancabili coppie danzanti.

Ogni episodio tragico o comico, ogni tipo di carattere o di persona, ogni situazione può essere ispirazione di nuovi stornelli improvvisati. Ma non bisogna assolutamente offendersi, sarebbe un’ulteriore stimolo alla creazione di nuovi stornelli e alla derisione condivisa di cantori, suonatori e spettatori.
Mario Amici è uno dei veterani fra gli stornellatori marchigiani, ma anche uno dei più attivi; la notte del Cantamaggio è stato l’ultimo a rincasare dopo aver passato l’intera giornata a cantare i suoi stornelli e a suonare uno strumento, si dice da lui inventato, chiamato “segone” o “violino dei poveri”, un pezzo di legno sagomato a mo’ di violino che va sfregato con un archetto di legno. Mario ha raccontato barzellette e cantato stornelli ad una platea di giovani seduti sul piazzale di Morro d’Alba, fino a notte tarda. Tutti noi lo ascoltavamo con somma ammirazione (sua moglie con somma rassegnazione) increduli di quello che riusciva ad inventare la sua fervida fantasia.  Mi racconta che ha imparato a cantare dai suoi avi, ed ora anche suo figlio Stefano è un abile costruttore di tamburelli, oltre ad essersi inventato un organetto lungo ben 10 metri (bisogna essere in 5 per suonarlo!) mentre suo nipote Marco, di soli cinque anni, comincia già a battere i primi colpi sul suo tamburello.

PIU' FOTO (quelle pubblicate in questa pagina sono scatti di JESSE)

RINGRAZIAMENTI: Mario Amici, Danilo Donninelli, Stefano Amici , La Damigiana, Gianni Donnini,  Paolo Polverini, Gastone Petrucci Ass. Cult. La Macina  il Bar di Morro d’alba, tutto il popolo del Maggio, il Comune di Morro d’Alba, Ilaria fava, la martinicchia, i fratelli accattoli sauro e samuele, nardino beldomenico, primo pirani,  Il cielo in una danza, Stefania Giuliani...

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È conosciuta come Giannina, è tutta nera, ha gli occhi scuri con sfumature di blu intenso, è una cantastorie. Quando canta pare trasformarsi in un altro essere e la drammaticità della sua voce entra dritta nelle viscere e smuove l’anima.

Giannina è forse l’ultima rimasta fra una cerchia di musici erranti che anni orsono viaggiavano per le case della provincia di Teramo e Ascoli per cantare storie; storie di santi soprattutto, Sant' Antonio, San Gabriele e Santa Lucia, tratte da santini venduti nei mercati della sua zona, poi diesille (preghiere per i cari morti) e canzoni “da festa” attinte dal repertorio popolare tradizionale nazionale. Non era sola, viaggiava e cantava con suo marito che prima di sposarla faceva il cantastorie con un amico. Poi la scelta di seguirlo e da lì una vita da cantastorie. Si muovevano in cinquecento, in pullman o in bicicletta, e han fatto questo mestiere per ben 40 anni, alternandolo a lavori saltuari ma comunque mantenendolo come attività principale o almeno come principale preferenza.

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A questo tesoro di donna mi fa arrivare Gianfranco Spitilli (www.bambun.webnode.com), antropologo di Teramo, che nei giorni di permanenza in Abruzzo mi ha procurato incontri preziosi ed interessanti. Da un po' di tempo Giannina è tra le sue preferite in ambito di “studio”, anche se questo termine potrebbe risultare freddo, ma per mestieri di questo genere c’è bisogno di molto amore per i “soggetti di studio”. Gianfranco quando sente cantare Giannina chiude sempre gli occhi e si emoziona. 

Passiamo con Giannina una mattina intera, nella casa della sua famiglia a Garrufo di Campli: piove e le sue storie riscaldano e raffreddano il cuore in una rapida alternanza. La morte del marito, avvenuta pochi anni fa, pare aver scoraggiato molto Giannina, ed il suo atteggiamento nei confronti della vita è sicuramente cambiato.

"Se mio marito fosse ancora vivo sicuramente saremmo ancora in giro a cantare" afferma senza titubanze, ma poi tutto finisce...

Lamenta un passato migliore, fatto di cose semplici che ora non esistono più; parla soprattutto di accoglienza,  un tempo molto più calorosa, racconta di  quando andava a cantare per le case: "Il fatto di essere donna mi procurava più attenzioni" dice, e così anche per suo marito, da sempre abituato a viaggiare con uomini, le cose grazie a lei diventarono più facili.

Quando le spiego il motivo della mia visita e quello che sto facendo, in qualche modo si sente vicina a me che racconto storie di viaggi e si conforta al il fatto di sapere che io, a differenza sua, ho una casa con le ruote che mi permette di essere indipendente dall’ospitalità della gente, mentre lei doveva procurarsi alloggio nelle case altrui. Mi viene spontaneo confortarla a mia volta, comunicandole che i tempi, almeno in questo, pare non siano cambiati vista l’accoglienza che sto incontrando, ma forse si tratta di una forma differente di ospitalità, o semplicemente di altri tempi.

Sebbene sia una donna con una grande energia, il suo atteggiamento è pessimista e nostalgico, fa lunghi silenzi quando racconta il suo passato e con la mano si copre il capo in segno di desolazione. Ma al suo fianco c’è Francesco, il nipote adorato che, guarda caso, suona la fisarmonica, conosce il repertorio da cantastorie, canta come suo nonno e per di più ha una vecchia 500... quando Giannina lo guarda, il volto cambia espressione e un guizzo di pazzia e amore le fa sognare una storia, e così continua a cantare.

Ringraziamenti: Giannina Malaspina e la sua famiglia; Francesco Di Carlo, nipote di Giannina (nel CD del suo gruppo "A'SSALTARELLA" ci sono due tracce cantate dai nonni);  Gianfranco Spitilli che grazie a Francesco ha "scoperto" Giannina e ora l'ha fatta scoprire a me.   20090610

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Due Serenate in Abruzzo e in Sardegna

Abruzzo e Sardegna sono sicuramente le regioni più romantiche che ho incontrato fino ad ora. Il percorso del Cammino della Musica ha infatti incrociato due episodi analoghi, in queste due regioni che di analogo hanno ben poco. Del resto si sapeva che l’Italia intera è abitata da un popolo di romantici, ma nella provincia di Teramo e di Nuoro, pochi giorni prima di celebrare le nozze, la coppia, come da usanza, arruola un gruppo di musicisti della zona per farsi cantare la serenata. Una sorta di addio al celibato che non ha però nulla a che vedere con spogliarelli, trasgressioni e nottatacce; anche se in realtà, dopo la serenata, è prassi banchettare fino ad ore tarde. La prima occasione è ormai datata al 21 maggio quando appena approdato in terra abruzzese con il camper che quasi fracassa una tettoia, vengo accolto da Gianfranco Spitilli (www.bambun.webnode.com) che ancora una volta mi regala una bella opportunità per conoscere le usanze abruzzesi. Appuntamento a casa di Valentino, storico cantore di Poggio delle Rose, che assieme al resto dei “partenzisti” si sta scaldando la voce prima di raggiungere la casa della sposa ed eseguire il rituale. Qui la serenata si chiama infatti “partenza”, quella della sposa che lascia la casa paterna per il nido nuziale. Si tratta di una canzone le cui parole sono quelle di una madre che ripercorre nei ricordi tutti i momenti passati assieme alla figlia fino al momento di “lasciarla” alla vita da moglie.
 
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Dopo le “prove”, miracolosamente intercettate dalla diretta telefonica di Radio Ciroma che ha regalato questo momento ai suoi ascoltatori, ci spostiamo dalla sposa fortunata che sta aspettando affacciata al balcone della casa paterna. Un gruppo di amici e parenti invitati a nozze aspettano in sommo silenzio l’arrivo dei musicisti. Questo momento di attesa è veramente emozionante; attorno solo i passi dei musici e il canto dei grilli. Comincia quindi la partenza che durerà per più di 25 minuti. La sposa si emoziona dal balcone e qualche sua amica si abbandona ad uno scroscio di lacrime dalla “platea”.
Quando finisce il rito, la sposa scende, appare poi lo sposo e i genitori, ai quali vengono dedicate altre canzoni specifiche e poi comincia la festa. Valentino mi racconta che solitamente bisognerebbe fare la “partenza” il giorno prima di sposarsi come lui ha fatto con le sue due figlie, ma molti preferiscono tenersi questo giorno per gli ultimi preparativi e per non rischiare di arrivare all’altare troppo stanchi. Quindi si fa al giovedì precedente, perché il venerdì dicono porti sfortuna.
Pochi giorni dopo esser sbarcato in Sardegna arriva la seconda occasione di partecipare ad una bellissima serenata. Questa volta mi trovo a Nuoro e il gruppo “Sos Canarjos” (www.soscanarjos.it) è stato chiamato per omaggiare una giovane coppia di sposi. Il rituale è più o meno lo stesso, ma la location a differenza di quella abruzzese è il cortile in cemento di un quartiere di Nuoro, in pieno centro. La sposa affacciata dal balcone del palazzone quasi non si vede da quanto è in alto. La canzone che si ascolta nel video è chiamata “Non potho reposare” (Sini–Rachel). Bobore, il direttore dello storico gruppo, mi dice che questo è il pezzo emblema della serenata, sono parole che l’innamorato rivolge alla donzella. Sarebbe composta da una quarantina di strofe ma i cantori preferiscono usare solo le più significative per poi divertirsi con altri canti. Anche a Nuoro ci sono state lacrime e commozioni ma poi balli e molta allegria. Così comincia il mio viaggio in Sardegna…
Ringraziamenti: Gianfranco Spitilli, Valentino, Roberto Spennak e i partenzisti, Radio Ciroma, Paolo e Bobore dei Sos Canarjos e i Sos Canarjos tutti, le due coppie di sposi, che abbiano vita felice e prospera insieme.

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Stringersi attorno al cerchio dei tenore è un’emozione che pochi possono provare, ma se mai avrete la fortuna di incontrare iPopulos Tenore Nugoresu” e saprete avvicinarvi con delicatezza alla loro arte, sicuramente ve lo permetteranno e allora la vostra voce (sperando sia intonata) potrà fondersi in un’armonia che vi farà vibrare l’anima. Solo così capirete il valore di questa tradizione e la magia del cerchio.
Così è accaduto a me, quando una sera i "Populos Tenore Nugoresu" mi hanno invitato a documentare una “prova” nella quale i quattro membri del gruppo condividevano l’esperienza canora con vari amici che, a turno, si inserivano nel cerchio apportando speciali sfumature timbriche o seguendo il ritmo del coro a passo di danza.
A raccontarmi le particolarità di quest’arte fra le più rappresentative della Sardegna è Bobore, misu boche (mezza voce) del gruppo, durante la raccolta delle albicocche biologiche per il suo mercato.
Cisarebbe da parlare e da scrivere per decenni su questo tipo di canto "le cui origini verosimilmente si perdono tra le pietre dei nuraghi" [1]; ma la cosa che agli odierni tenore preme di più far sapere è che questa usanza canora è più viva che mai; nuove leve sempre più numerose si stringono in cerchio educando le corde vocali a emettere il tipico suono gutturale e la mente a interpretare testi dall’alto contenuto poetico.
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La caratteristica che rende il canto a tenore sempre attuale è sicuramente la sua funzione informativa. Prima dell’arrivo dei mezzi di comunicazione di massa, era ai tenore che spettava il compito di informare la popolazione, perché tramite il canto si potevano raccontare gli avvenimenti del paese in una forma socialmente accettabile e da tutti condivisa.
Questa funzione non è comunque sparita, anche se attualmente pare che la maggior parte delle formazioni preferisca usare pezzi “di repertorio”; è sufficiente però che un qualsiasi testo si presti ad essere interpretato in “tenore” che anche canzoni o testi poetici facenti parte del repertorio moderno o internazionale, possano acquistare un sapore tipicamente sardo. È il caso ad esempio dei versi scritti dal poeta francese Paul Eluard e reinterpretati dai “Populos Tenore Nugoresu”, ispirati a ideali di libertà e fraternità, argomenti universali che di quest’epoca hanno purtroppo ancora bisogno di essere incoraggiati dal convincente canto dei tenore.
Il pezzo che metto qui sotto è un’interpretazione originale di “Populos Tenore Nugoresu” del testo poetico “Libertade” scritto da Paul Eluard. Il pezzo comprende il “canto a sa seria” e su “ballu tundu”: questa seconda parte facilmente decifrabile da un improvviso cambio di tempo, serve per accompagnare il ballo fatto in cerchio, per l’appunto “Ballo tondo”. La prima parte è invece più libera da schemi ritmici e caratterizzata dall’interpretazione personale del solista. Il testo è tradotto in sardo.
Ringraziamenti: "Associazione Populos Tenore Nugoresu", Paolo e Monica dei Sos Canarios

 
Imperdibile appuntamento quello del cammino della musica con uno dei simboli cardine della cultura sarda: le launeddas. Uno strumento tanto semplice nella sua struttura quanto complicato nella sua tecnica esecutiva. Le sue origini si perdono nel lontano periodo nuragico; il ritrovamento del famoso bronzetto sardo che raffigura un uomo che suona le launeddas ne attesta la provenienza. Per conoscere meglio questo antico strumento che ancora oggi affascina generazioni con il suo suono ipnotico, sono andato a San Vito (CA) ad incontrare uno tra i più abili e conosciuti suonatori viventi di launeddas: il grande Luigi Lai. È a lui che spetta il merito di aver “preso per i capelli” una tradizione che altrimenti sarebbe caduta in disuso. Quando tornò da un lungo periodo di emigrazione in Svizzera nella sua Sardegna, cominciò a riproporre lo strumento ormai scomparso durante le feste. "Lo consigliavo al posto della fisarmonica che ormai aveva preso il suo posto, ma la gente mi snobbava e non mi dava nemmeno retta, allora ho cominciato a far sentire le launeddas di mia iniziativa, e così cominciarono a rendersi conto che lo strumento valeva la pena di essere ascoltato e ripreso in considerazione". Oggi Luigi, viaggia per tutti i più prestigiosi teatri e festival del mondo, collabora con artisti di fama internazionale provenienti dalle più svariate formazioni musicali (Angelo Branduardi, Paolo Fresu…) e tra i suoi numerosi allievi dice che ce n’è sicuramente qualcuno che erediterà l’onere di continuatore della tradizione: "Le launeddas sono uno strumento che ti ruba la vita, solo dedicandoci gran parte del proprio tempo si possono raggiungere buoni livelli. Oggi c’è chi pensa di essere suonatore di launeddas dopo poche lezioni, solo perché riesce appena ad abbozzare una sonata, ma in realtà sta solo distruggendo una tradizione. I miei allievi se vogliono continuare a stare con me, devono fare quello che gli dico io e fidarsi, solo così potranno diventare dei veri suonatori, con molto impegno e sacrificio.
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So che un tempo questo strumento era usato nelle feste per far ballare la gente, come lo erano i Tenore nella zona del nuorese e chiedo a Luigi cosa è rimasto oggi di questa usanza. A questa domanda il maestro perde lo sguardo in direzione del mare, che si vede dalla sua casa di Portocorallo (dove mi ha invitato a pranzare durante un altro incontro) e il suo volto assume un’espressione nostalgica. "Una volta non c’era niente, non c’era la televisione e il suonatore era il teatro. Aveva un ruolo determinate nella società perché poteva far ballare durante le feste ed il ballo era l’unica occasione per avvicinarsi ad una ragazza. Il ballo del campidanese era molto complicato e tutti lo sapevano interpretare sapientemente, in modo rispettoso nei confronti della tradizione. Oggi purtroppo pare che il ballo sardo in tutti i suoi stili sia spesso relegato a soli fenomeni folkloristici e che nel tempo abbia subito schematizzazioni che lo hanno reso acrobatico e “spettacolare” sicuramente adatto ad essere esibito davanti ad una platea o ad un gruppo di turisti, ma svuotato del suo vero senso di rituale di festa e di “condivisione introspettiva”. (Questo è un leitmotiv che sto riscontrando in molte zone d’Italia: dalla mia esperienza acquisita durante questi mesi di ricerca in Italia ho riscontrato che spesso il ballo tradizionale a differenza della musica non sembra più far parte di un’espressione sociale condivisa, attuale e spontanea, ma che sia paragonabile ad un pezzo da museo riesumato e schematizzato secondo presumibili tecniche remote, ma allo stesso tempo riadattato ai giorni nostri con tecniche puramente performative e ricercanti la spettacolarità).
Le launeddas continuano comunque ad essere suonate nelle processioni, come quella di San Vito, che ho avuto l’occasione di seguire durante la mia permanenza in Sardegna.  A raccontarmi aneddoti su questa festa sono Rocco Melis e Sandro Frau, due ex allievi di Luigi Lai che hanno anche affrontato il palco di San Remo con il loro gruppo "Isola Song" mostrando al pubblico integrazioni sonore tra tradizione e musica Pop. Anche loro sono dell’opinione che il ballo ha perso la sua importanza, infatti tradizione vorrebbe che dopo la processione ci si riunisse tutti fuori dalla chiesa per scatenarsi nelle danze, ma i tempi cambiano… l’importante è però che le launeddas rimangano!
Ringraziamenti: Luigi Lai Maistu, la moglie, Vittorio, Tatiana ed il piccolo Riccardo (futuro erede delle launeddas del nonno Luigi), Rocco Melis, Sandro Frau, Fabrizio Ledda, Isola Song.  
 

Napoli, Gragnano: la vista da quassù mi ricorda Rio de Janeiro: mare, città, montagna in sequenza rapida e spettacolare! Invece è il Golfo di Napoli e da qui si scorgono Ischia, Procida, Sorrento e il Vesuvio. Mi trovo nel laboratorio di due tammorrari tra i più conosciuti e temuti dei monti Lattari e della Campania in generale: Raffaele Inserra e Catello Gargiulo. L’atmosfera è quella di un far west con cactus, teschi di vacca, palafitte in legno; in realtà questo spazio così suggestivo è un centro ricreativo per ragazzi con problematiche sociali che qui possono essere educati attraverso l’assorbimento della linfa culturale di questa zona: la terra, i suoi prodotti e la tammurriata. I ragazzi qui imparano a costruire e suonare la tammorra, coltivare la terra con prodotti tipici ed allevare bestie di vario genere. Questo il progetto sociale dei due musicisti napoletani riuniti nell’associazione culturale “Incanti”. VERSIÓN EN ESPAÑOL - ENGLISH VERSION

L’impatto sonoro che segue il canto a 'Fronna' o più esattamente la 'fronn' 'e limone' (fronda di limone), alimentato dalla visione suggestiva che si presentava ai miei occhi è stato devastante. La vibrazione reiterata del tamburo rende sorprendente questa forma di canto accompagnato: ipnotico e trascinante.

Non si avverte la necessità di altri supporti sonori, anche se spesso organetti, putipù, tromba degli zingari  (marranzano) e tricchebballacche arricchiscono la canzone, ma sono canto e tamburo i due elementi regnanti, indipendenti dal resto e indissolubilmente dipendenti l’uno dall’altro. Certo non tutti sono capaci di tali prodigi, anche se a detta di Raffaele e Catello ultimamente di suonatori di tammorra ce ne sono un po’ dappertutto, e battere su di un tamburo cantando qualche verso potrebbe sembrare facile, certi impatti però si raggiungono solo con moltissimi anni di esperienza, soprattutto di conoscenza della tradizione attraverso l’osservazione delle generazioni precedenti e la condivisione con esse. Senza questi elementi, non si sta facendo Tammurriata, ma una cosa ex-novo, senza preciso significato, senza un’identità e molto dannosa per la vera tradizione.  “Questa è una tradizione millenaria ma l’origine è sempre molto chiara” dice Catello “e quando senti cantare un anziano non è solo lui che canta ma è lui che canta con l’esperienza di tutti quelli che lo hanno preceduto e questo si riconosce nella ricchezza del suono nell’interpretazione… quando si crea qualcosa di nuovo senza rispettare il passato, tutto questo si perde”.

Vivere una tradizione significa saperne interpretare i suoni del passato e dare loro un significato coerente nel presente, per questo la borghesia nata sotto altri canoni rispetto alla società contadina, non potrà mai suonare la tradizione se non si prenderà la briga di conoscerne i codici che l’hanno creata.

Tutto ciò vale anche per il ballo della Tammurriata che oggi ha assunto forme e codici sicuramente differenti rispetto a quelli di un passato in cui non era socialmente accettato un contatto fisico “provocante” tra i danzatori. Oggi che questi tabu sono ovviamente scomparsi, il rischio è ancora una volta quello di creare una forma di danza nuova, isterilito della “purezza” del passato. Solo con sapienza e rispetto si potrà adattare un movimento principalmente legato a tradizionali codici rurali ad una moderna dimensione sociale che ammette nuovi comportamenti, senza volgarizzarne il valore.

Lo sanno bene Raffaella Coppola e Maurizio Graziano Pollicino, i ballerini che ho incontrato nei giorni passati in Campania (vedi foto sotto e video). Raffaella mi racconta che un'anziana ballerina del paese durante una festa l'ha proclamata sua degna erede.

Per cui se vi capita di passare per queste zone e avrete l’opportunità di assistere ad una ricorrenza paesana dove si balla e si suona fino a notte tarda, godetevi pure la festa e fatevi trascinare dall’energia della tammurriata e dall’ospitalità dei suonatori, danzatori, cantatori, ma sforzatevi anche di capire chi fra loro stia valorizzando una tradizione o semplicemente sfogando alcune repressioni personali attraverso l’imitazione di qualcosa che non gli appartiene affatto. Non serve essere esperti di etnomusicologia o napoletani… questa sensazione si percepisce nettamente e arriva dritta al cuore, non è spiegabile a parole, sta semplicemente nella vibrazione del tamburo che si accorda alla voce e si traduce in movimento.

testo: Andrea Zuin - sottotitoli in inglese: Anna Finotti

Ringraziamenti: Raffaele Inserra, Catello Gargiulo, Raffaella Coppola, Maurizio Graziano Pollicino, Pietro Pisano, Marco Limato, Zi’ Giannino, Zi’ Rocco, Peppino di Febbraio, la moglie di Raffaele, Iram, Fabrizio, Zeus, Dario Mogavero, Marilù Poledro, Alessandra Dell’aglio, Enzo, Domenico, Carmine Carbone e la famiglia, Giovanni Vacca

 
 
 
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anche Giuliano Prepa...
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chissà cosa ne pense...
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Guardo le foto e leg...
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grazie meraviglioso ...
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